GUBBIO: LA RENNES-LE-CHÂTEAU ITALIANA

08.11.2013 12:54

Già quando Roma era un agglomerato di capanne che si affacciava su una palude malsana nei pressi di un’ansa del Tevere, il nostro monte era ritenuto sacro. Parliamo del Monte Ingino o Monte di S. Ubaldo, l’altura alle cui falde sorge la città di Gubbio, nota nell’antichità come Ikuvium, città-stato edificata dagli Umbri, popolo indoeuropeo sceso dalla Germania verso la fine del secondo millennio prima della nostra era. La sua lingua, impressa nel bronzo di sette tavole, le Tabulae Iguvinae, riverbera gli echi solenni di antichi idiomi germanici. E’ qui che è stata fatta la “scoperta”; un evento del tutto inaspettato nel quale siamo rimasti avviluppati, come in una grande ragnatela, le cui trame tese e sottili collegano eventi lontani nel tempo e nello spazio.

Al centro della vicenda ci sono un pittore dell’Ottocento, un dipinto dai tratti inquietanti e un uomo ossessionato da quel dipinto e poi una grotta a mezza costa del monte Ingino, sotto un erto costone di roccia grigia che emerge dalla verzura, come il ginocchio scarnificato di un titano, scaraventato nelle viscere della montagna dall’ira degli déi e, tra le rocce presso la grotta, compare l’enigmatico incrociarsi di parole incomprensibili, seppur disposte secondo una logica matematica, secondo un’armonia perfetta quanto sfuggente, composte in un quadrato magico:

NIGER

INARE

GALAG

ERANI

REGIN

Non molto lontano, su una parete di roccia, una lapide ricorda alcuni versi dal Paradiso di Dante:

Intra Tupino e l’acqua che discende / Del colle eletto dal Beato Ubaldo / Fertile costa d’alto monte pende

per non dimenticare che quel luogo, al tempo del Sommo Poeta, era fonte di acque amene, ben diverso da com’è oggi.

Ciò che ci colpisce subito è NIGER REGIN, prima e l’ultima parola del quadrato palindromo, molto simile a quello ben più noto del Sator. Che si tratti di un riferimento ad una Nera Regina? Forse un antico culto legato a Iside. Immediatamente, ci passano davanti agli occhi i quadri di quel pittore e, in particolare, quel quadro, e poi l’immagine tremenda dell’uomo che ne fu ossessionato per buona parte della sua vita: Adolf Hitler.

 L’Isola dei Morti

Il dipinto cui facciamo riferimento è L’Isola dei Morti di Arnold Böcklin (1827-1901), artista di origine svizzera, che soggiornò a lungo in Italia e morì nei pressi di Fiesole. Solcando la superficie piatta del mare, una barca che trasporta un essere avvolto da un bianco sudario si avvicina ad uno spuntone di roccia emergente dalle acque, sul quale sorgono alcune tombe rupestri, che circondano le sagome affusolate di un bosco di cipressi. Angoscia, solitudine, mistero, un senso di indomabile vertigine verso l’ignoto è la sensazione che si prova davanti a quell’immagine. Dovette essere la stessa vertigine che inghiottì la mente di Hitler, che non si poté più staccare da quel quadro maledetto.

Chi ha detto che Böcklin si fosse ispirato ai Faraglioni di Capri, non ha mai visto quella zona del Monte Ingino. Se lo avesse fatto, sarebbe rimasto allibito, come lo fummo noi in quel pomeriggio di fine estate. La roccia, i cipressi, l’angoscia generata dal silenzio della località umbra, ci rimandano all’Isola dei Morti, circondata da una presenza liquida che non è mare, ma silenzio cristallizzato, stasi totale.

Poco più sopra, la grotta di S. Agnese, anticamente nota con il nome di S. Agata Sub Grotta, sorge alla base di una fenditura che taglia il costone di roccia grigia che termina in un balzo esposto verso meridione. Lo stretto ingresso della grotta si apre sopra una piattaforma calcarea da cui si diparte una rampa che sale verso il balzo sovrastante. Sulla parete di sinistra è scolpito un acronimo: HRSA. Sulla parete opposta all’entrata, c’è un piccolo vano ricavato nella roccia, forse ciò che rimane di un’edicola sacra o semplicemente di uno stipo usato dagli  eremiti. Esaminiamo l’edicola e ci accorgiamo che la pietra che ne costituisce il fondo, non è altro che un grosso masso murato con la calce. Perché? Sulla destra, vicino al soffitto corre un canale di scolo che sembra provenire dall’interno della montagna. Un’idea folle ci balza alla mente: che ci sia un altro ambiente oltre quella parete? Dobbiamo verificarlo, ma come? Dopo aver introdotto una microcamera per un paio di metri al di là del muro, ecco apparire sul monitor immagini nitide di pietre e detriti; poi alcune forme si definiscono sulle rocce: piccole svastiche. Ne contiamo almeno tre, nette, definite. Chi le ha tracciate? Quando? Non sappiamo rispondere. Decidiamo allora di estendere la ricerca a quello che, per comodità, chiameremo il “balzo dell’augure”. Saliamo di quota di una ventina di metri, percorrendo per intero la rampa tagliata nella roccia del monte, finché s’interrompe in corrispondenza di un viottolo dal tracciato incerto che si snoda tra le selci e sale fino al balzo, uno spiazzo dal quale si osserva agevolmente la pianura di fronte a Gubbio e parte della città stessa. La bussola ci conferma che la piattaforma di roccia è diretta perfettamente a Sud, verso la chiesetta della Vittorina, che, nella piana di Gubbio, ricorda il luogo in cui San Francesco ammansì il leggendario lupo.

Un complesso rompicapo

Ci spostiamo sulla verticale della grotta e notiamo anomalie del campo magnetico terrestre. A pochi centimetri dal balzo, l’ago impazzisce e devia, senza una ragione apparente, di 20-25°. Sul margine della piattaforma, ecco comparire alcune lettere scolpite: RREG. Ci ritorna in mente il quadrato magico, trovato a non più di 50 metri di distanza da lì. Quelle lettere potrebbero essere un frammento della frase NIGER REGIN. Ancora un richiamo alla Nera Regina...

E’ giunto il momento di fermarci a riflettere. Dobbiamo fare una digressione di oltre 150 anni, riandare all’inizio dell’800, quando a Gubbio comparve un personaggio che lasciò un’impronta indelebile in gran parte della città. Parliamo di Matilde Hobhouse, moglie del marchese Francesco Ranghiasci Brancaleoni. Nel 1850 la nobildonna inglese si intrattiene per qualche tempo ad Olevano, sui colli Albani in compagnia di Dorotea Gabrielli e lì frequenta  un gruppo di pittori tedeschi tra cui Heinrich Dreber, Ludwig Thiersch e Arnold Böcklin, tutti membri della "Lega della Virtù" o Tugendbund.

Quella stessa Tugendbund di cui rimane una traccia evidente nel tempio neoclassico che qualche anno prima Matilde volle far edificare nello splendido Parco Ranghiasci costellato di riferimenti alchemici ed esoterici. Nel centro del timpano è posto lo stemma dei Ranghiasci, inquartato con quello dei Brancaleoni, circoscritto dal motto: “Virtus vincit invidiam”.

E’ innegabile che la Tugendbund sia uno dei rivoli che andò a confluire nel più vasto fiume dell’arianesimo che a quel tempo poneva i presupposti al neo-paganesimo pangermanico, e, vari decenni dopo, all’iniziazione di Adolf Hitler, sinistro sacerdote della dea Ostara e membro della Società Thule (cfr. speciale Nazismo esoterico HERA n° 32).

Ma guardiamo più attentamente gli interessi artistici di Böcklin. Egli sembra affascinato dal culto pagano degli alberi e delle acque. Lo aveva sconvolto la vista del parco di Bomarzo, per la magistrale capacità di Pallavicino Orsini di realizzare un giardino così denso di contrasti cromatici, rovine pagane ed edifici alchemici. Nelle sue opere egli si avvale di varie componenti che si uniscono in una mistura ermetica capace di trasmettere all’osservatore l’ineffabile. Lo vediamo già bene neIl Bosco Sacro, dove egli utilizza la luce come elemento assoluto e non legato alla presenza del Sole, che egli mai raffigura. Ma meglio ancora apprezziamo questa sua capacità di trasmutazione della materia attraverso la luce nell’Isola dei Morti, che egli dipinse nel 1880 e che produsse in ben cinque versioni fino al 1886, senza naturalmente contare l’incredibile quantità di copie fatte dagli ammiratori. L’interpretazione di questo quadro ossessionò le menti dei Regnanti d’Inghilterra, di De Chirico, di Freud, di D’Annunzio e, come abbiamo già ricordato, di Hitler che possedette uno dei cinque originali, quello andato perduto.

Ma dove aveva tratto Böcklin ispirazione per quest’opera? Si fa riferimento ai Faraglioni di  Capri, un’ipotesi verosimile, se non si facesse caso a un particolare che porta verso un’altra pista. Il dipinto rappresenta la luce del tramonto. Un tramonto un po’ strano, perché nel Golfo di Napoli a quell’ora del giorno la luce proviene dalla parte opposta. Un po’ inusuale per un pittore amante dei crepuscoli rappresentare un’alba proprio nell’Isola dei Morti. E allora dove dobbiamo andare per ritrovare lo stesso punto di luce, le stesse rocce, gli stessi cipressi? In un altro luogo che non sorge in mezzo all’acqua anche se ne fu antica scaturigine, tanto che lo testimoniò lo stesso Dante e, nel 1921, qualcuno che forse sapeva volle confermarlo apponendovi la lapide con i versi del Divin Poeta: quell’Intra Tupino... che abbiamo citato all’inizio. Parliamo proprio del Monte Ingino di Gubbio, nelle vicinanze di quella che viene volgarmente detta la Prima Cappelluccia, poco distante dalla Grotta di S. Agnese e a due passi dal quadrato Magico della Nera Regina. Una zona questa, fortemente presidiata nel 1944 dalle truppe di occupazione tedesche e che ricevette le attenzioni, pochi anni dopo la fine della guerra, di una strana signorina inglese comparsa a Gubbio quasi dal nulla negli anni Cinquanta.

L'enigmatica Miss Mitford

All’apparenza più che settantenne, la donna diceva di chiamarsi Ellen Mitford e di essere la figlia dell’omonimo Lord inglese oltre che fervente cattolica come suo padre. L’eccentrica dama amava appartarsi di notte proprio nei pressi della Grotta di S. Agnese, lì dormiva sotto la tenda e, al chiaro di Luna, amava parlare con gli alberi. Ma chi era esattamente questa donna? Abbiamo effettuato delle ricerche e non risulta nessuna Ellen Mitford figlia di Lord Mitford che a quel tempo potesse avere quell’età. Il quadro che ne esce è, in ogni caso, più che inquietante. Lord Mitford, oltre ad un figlio che morì giovane, ebbe cinque figlie: Jessica, Debo, Nancy, Diana, e Unity Walkirie. Quest’ultima, per uno strano scherzo della sorte, vide la luce in una cittadina mineraria dell’Alaska, chiamata Swastika e in seguito divenne l'amante di Adolf Hitler! E’ documentato infatti che la giovane si incontrò con il dittatore ben 140 volte.

Quando l’Inghilterra dichiarò guerra alla Germania, Unity, presa da sconforto, tentò il suicidio, sparandosi alla tempia all’Englischer Garten di Monaco. Fu soccorsa e ricoverata in clinica dove fu sottoposta ad un delicato intervento chirurgico. I medici riuscirono a salvarla e il Führer, naturalmente, pagò tutte le spese di degenza.  

La Miss Mitford che comparve a Gubbio non poteva essere nessuna delle cinque sorelle, perché in quegli anni la più anziana, Nancy, era poco più che cinquantenne. Si diceva di lei che fosse insegnante di canto gregoriano e che avesse soggiornato a lungo in Germania. Allora chi era veramente? Perché millantava quel cognome, se mai lo millantava? Che cosa era venuta a fare o a cercare a Gubbio, proprio in quella zona del Monte Ingino? Per conto di chi? Sono domande che aspettano una risposta e che potranno averla solo quando si chiarirà l’identità della misteriosa inglese ed i suoi veri legami con la famiglia Mitford e... con Hitler.

Il culto della Maddalena

Ritorniamo alla Regina Nera. Un excursus storico sull’argomento occuperebbe sicuramente le pagine di un ponderoso trattato. Per sommi capi, potremmo identificarla con Iside o con la Madonna Nera dei Templari o, meglio, con la Maddalena. Accezione questa certamente ben più recente dell’originaria frequentazione della grotta di S. Agnese, che dovrebbe retrodatarsi almeno al III secolo a.C., ma che ci può aiutare a comprendere quale fu l’importanza attribuita alla città di Gubbio da varie cerchie esoteriche che riconoscevano a questo luogo valenze spirituali particolari, rifacendosi anche alla sacralità espressa dall’antica Confraternita dei Fratelli Atiedii i cui riti sono descritti accuratamente nelle sette Tabulae Iguvinae. C’è chi sostiene addirittura che la Confraternita non si sia estinta, ma continui ad operare ancora oggi.

Sempre legata al culto della Maddalena potrebbe essere un’altura che affianca a nord-ovest il Monte Ingino: il Monte Calvo. All’interno del canalone da cui sbocca la strada che proviene dal Bottaccione, sito conosciuto dai geologi di tutti il mondo per la presenza dell’iridio, sorge a mezza costa il trecentesco Eremo di S. Ambrogio, che, guarda caso, ha la stessa esposizione a Sud della Grotta di S. Agnese sul Monte Ingino, e sorge presso una caverna. Al suo interno è custodita la tomba del Beato Arcangelo Canetoli e quella del cardinale Agostino Steuco, illustre studioso e alchimista del XVI secolo. All’ingresso dell’eremo, su un gradino, sono impressi gli stessi graffiti trovati a Saint Maximin-la-Sainte Baume in Provenza nella parete d'ingresso della cripta della Maddalena. Si tratta di simboli raffiguranti una sorta di ferro di cavallo rovesciato, una specie di omega, contenente una croce.

Un’altra sorpresa ci attende, se osserviamo il Monte Calvo dal versante nord-ovest del Monte Ingino: lo stesso disegno, stavolta gigantesco, tanto grande da sfuggire all’osservazione. Una croce greca, estesa per decine di metri e tracciata sul pendio del Monte Calvo in una zona scoscesa al di sopra dell’Eremo di S. Ambrogio. Con un minimo di fantasia, considerando come margine esterno la sagoma gibbosa dell’altura, otteniamo la stessa immagine, stavolta di proporzioni gigantesche: la croce inscritta nell’omega.

Ma ritorniamo brevemente all’eremo. Poco distante dai gradini, sulla parete esterna, troviamo una lapide tombale, forse di un antico ossario, sormontata da un teschio  e tibie decussate, mancante della mascella dove si legge: "SANCTA ET SALUBRIS EST COGITATIO PRO DEFUNCTIS EXORARE UT A PECCATIS SOLVANTUR – II MACH XII".

Va fatto notare che, quando nel 1279 a Saint Maximin-la-Sainte Baume fu scoperta, per opera di Carlo II d’Angiò, la tomba contenente il corpo della Maddalena, il capo mancava proprio della mascella. Il sarcofago venne aperto alla presenza dei vescovi di Arles e di Aix e fu redatto un verbale di cui riportiamo un passo:"Quando si scoperchia la tomba, un soave sentore di profumi si diffonde, come si fosse aperto un intero magazzino di essenze aromatiche La lingua, tra le ossa aride del capo, e malgrado l'assenza dell'osso mascellare inferiore, appare incorrotta, disseccata ma inerente al palato, e da essa esce un ramo di finocchio verdeggiante". Papa Bonifacio VIII, informato del prodigioso rinvenimento, riesumò tra le reliquie di San Giovanni in Laterano un osso mascellare, che risultò combaciare col cranio appena rinvenuto dal principe. A questo punto, non possiamo fare a meno di citare una località che ha acceso, ormai da decenni, l’interesse di un numero inimmaginabile di ricercatori, di studiosi, e, purtroppo, anche di visionari: Rennes-le-Château (cfr. HERA n° 22 pag. 20 e HERA n° 23 pag. 62). Anche lì c’è un riferimento preciso alla Maddalena, anche lì, una lapide funeraria nel cimitero della Chiesa di Santa Maria Maddalena che il parroco Saunière si premurò di distruggere, ricordava una dama Marie D’Ables de Negre. Inutile rimarcare l’analogia semantica con il nostro NIGER.

E da Renne, non possiamo non riandare con la memoria ai dipinti di Nicolas Poussin. In particolare all’autoritratto del 1650, conservato al Louvre, ma dipinto in Italia, in cui egli è effigiato con le spalle ad un quadro, del quale si vede solo il fondo di tela, appoggiato sopra un altro dipinto da cui emerge l’immagine di una divinità femminile coronata da un diadema dotato del “terzo occhio”. Sopra di lei, la sagoma di un monte che molti hanno identificato con Blanchefort, nei pressi di Rennes. Un brivido però ci percorre la schiena, perché chiunque conosca Gubbio non può negare che quello è il Monte Ingino, con la Basilica di S. Ubaldo com’era all’epoca. Che Poussin abbia voluto lasciare un’indicazione precisa di un luogo gemello, nel quale cercare la stessa cosa che il parroco Bérenger Saunière trovò a Rennes? Non è un’ipotesi da scartare, se si esaminano altre due opere dello stesso autore.

Parliamo della prima versione dei Pastori d'Arcadia e dello schizzo di Shugborough nella versione del  1630. Su entrambi i dipinti è raffigurato un gruppo di pastori davanti ad un’arca di pietra sulla quale è scolpita la frase: “Et in Arcadia Ego”. Un rompicapo che ha fatto scrivere fiumi di inchiostro ad appassionati di misteri di tutto il mondo. Nel dipinto, il pastore indica la lettera “I”, mentre nello schizzo la lettera “G” seguita da “O”; la lettera “E”, iniziale di EGO è invece coperta dalla sua mano. Ebbene le lettere “GO” sono le prime due di Gobio o Gobbio, nomi coi quali era conosciuta la città nel ‘600. Nondimeno la “I” indicata nei Pastori d'Arcadia può essere identificata con l’iniziale del nome latino della stessa città: Iguvium.

La prospettiva diviene assai affascinante se esaminiamo la seconda versione dei Pastori d'Arcadia, sempre di Poussin. In questo caso il pastore indica la lettera “R”, l’iniziale di Rennes: la prova del nove dell’esattezza delle nostre deduzioni?

Le prime conclusioni

Abbiamo solo scalfito la superficie di un enigma che attraversa i millenni e si cristallizza nell’oscura presenza di una divinità femminile dalle ambigue valenze. Difficile capire con precisione quale sia il culto cui le tracce emerse fin qui fanno riferimento, difficile comprendere la ragione che spinse personaggi inquietanti ad interessarsi a quella grotta sul Monte Ingino ed alle zone circostanti.

La nostra ricerca è appena alle prime battute, ma l’intuito ci porta a credere che le tracce seguite, forse per un misterioso richiamo, potrebbero condurci verso territori vasti ed inesplorati.